giovedì 20 novembre 2014

... Pace, Amore e Gioia Infinita ...

da leggere ascoltando Negrita - Gioia Infinita ... la colonna sonora della vacanza



Non tutti i viaggi sono uguali; non tutte le vacanze hanno lo stesso sapore.
Alcune come arrivano passano; e non è che non ti lasciano nulla, ma non sono quelle che ricorderai per i mesi a venire.
E poi ci sono quei viaggi, quelli belli davvero, che per il luogo visitato e le persone con cui hai vissuto l’esperienza, si appiccicano alla pelle, e non riesci più a scacciarne via ricordi e nostalgia. Sono quelle vacanze così piene di sole e risate da far tanto bene all’anima, che ti fanno pensare che, infondo, la vita è bella ed è bello viverla. E condividerla, nelle gioie e nelle sconfitte, condividere i sorrisi, le canzoni, le fatiche; i giorni di sole e quelli di pioggia; le sveglie sentite e quelle ignorate; i tramonti in falesia e quelli in spiaggia.
Così era stata Kalymnos, così è stata San Vito lo Capo.
Forse per la compagnia ormai rodata, lo zoccolo duro degli Abbracci Verticali, forse perché, tutto sommato, siamo persone alle quali bastano una birra e dei nachos per essere felici, ma la trasferta sicula del nostro piccolo, grande gruppo è stata qualcosa di indimenticabile, con momenti di assoluta ilarità. E mi risulta difficile raccontare nel dettaglio i nove giorni trascorsi in terra siciliana, tanto che da più di un mese sto cercando di scrivere queste poche righe, cancellando e cambiando parole che non riescono ad esprimere del tutto emozioni e sensazioni, quelle “scosse forti all’anima che nessuno scorderà più”
Cosa rimane in mente della Sicilia? Sicuramente i colori: la terra rossastra, che contrasta con il verde dei fichi d’india e degli arbusti della macchia mediterranea; il calcare giallo, rosso e grigio che si staglia contro il cielo azzurrissimo; la sabbia bianca della spiaggia di San Vito, il mare verdazzurro, che si tinge d’oro al tramonto e gli scogli neri delle altre calette.
Le falesie, che sono qualcosa di imbarazzante tanto sono belle: un calcare giovane, tagliente, ferocemente doloroso, dove sono state chiodate linee molto varie e articolate, a volte logiche, altre meno, dalle placche a gocce alle grotte, dai muri verticali, fatti di concrezioni e sporgenze affilate come rasoi (le mie povere gambe ne sanno qualcosa), ai passi boulderosi in forte strapiombo, su buone maniglie che a volte si stringono e a volte sembrano mordere i palmi delle mani. E poi buchi, lame, fessure, diedri, inaspettate clessidre “belle belle in modo assurdo!” che risolvono un rinviaggio altrimenti un po’ precario.
Cosa ricordare delle falesie sanvitesi? Sicuramente la gradazione casuale, dove un 5b è una scala a pioli in un settore e in un altro è un tiro da infarto; la chiodatura fantasiosa, con buoni buoni quattro metri tra un chiodo e l’altro, anche quando in mezzo c’è un passo duro sotto un tetto; i passi ostici e i passi “porca troia”; la salsedine depositata sulla roccia, che si mischia al sudore e alla magnesite sulle mani, creando un terrificante effetto pappetta, deleterio per la tenuta.
Le vespe e i “calabresi” (soprannome affibbiato ai calabroni per renderli un pochino più … simpatici …), che vedi ronzare minacciosi accanto al tiro che vuoi fare, lassù a dieci metri da terra, e che iniziano a ronzarti attorno mentre scali, ancora più minacciosi, e pensi “ma chi cazzo me l’ha fatto fare! Aiuto voglio scendere!” ma ormai sei lì, e il tiro va smontato. E quelli che inizialmente non ci sono ed escono solo dopo, incazzati quanto basta, costringendo quattro persone a fuggire a gambe levate.
Il caldo torrido a metà ottobre, che ci fa consumare litri e litri d’acqua per bagnarci i capelli e poter scalare senza andare in ebollizione; e che ci fa fuggire ad Erice il giorno in cui l’acqua, ahimè, l’abbiamo dimenticata.
La nostra “piccola comunità rampicante” (cit. Laura B.) ha dato il meglio (… e, a volte, anche il peggio) di sé su quei muri di calcare.
Qualcuno ha letteralmente lasciato il sangue sulla roccia tagliente, imbrattando anche i rinvii; i più hanno lasciato ogni giorno qualche centimetro di pelle.
Ognuno di noi ha portato a casa qualche piccolo successo personale: chi ha iniziato scalando sui quarti e a fine vacanza ha scalato sui sesti; chi ha imparato le manovre di sosta, non senza qualche perplessità; chi ha scoperto che forse i passaggi sotto i tetti non sono poi così impossibili; chi prova a dare consigli a qualcuno, e questo qualcuno sistematicamente fa l’opposto (scusami Luca, giuro che non lo faccio apposta!).
Grazie a Davide e Matteo, poi, abbiamo capito che si può essere molto gentili anche in falesia (“per favore Matteo, potresti bloccarmi un po’?”) e Laura B. ha subito provato a mettere in pratica i consigli (“Blocca!”, “Bloccata!”, “Grazie!”), capendo però che, sospesa a svariati metri da terra, la gentilezza non è esattamente nelle sue corde (“Eli, però, parancami su un po’, cazzo!”). Dal canto mio ho fatto ampiamente risuonare le mie parolacce per tutte le falesie, fortunatamente piene di crucchi che mi auguro non abbiano del tutto capito.
Dalla Sicilia siamo tornati tutti con qualcosa in più, ricordi, esperienze, ma soprattutto … chili! Perché se è vero che si mangia bene in tutta Italia, in Sicilia si mangia benissimo.
E noi siamo una comunità di buongustai. O per lo meno di mangioni.
Apriamo le culinarie danze io ed Elisa con un epico arancino alle 9.07 del mattino, appena atterrate all’aeroporto di Palermo. E chiuderemo ancora io ed Elisa con il pane cunzato, indecentemente unto e ripieno, sempre in aeroporto, al ritorno.
Tra il primo arancino e l’ultimo pane cunzato c’è stato il delirio! Un delirio fatto di cene a base di pesce fresco, frutti di mare, couscous, busiate variamente condite, caponata, pizza e, a volte, un po’ di verdura, il tutto innaffiato da bianchi trinacri e amari della casa dai colori, a volte, un po’ inquietanti; un delirio di cene ma anche di apertivi caserecci a suon di birra, tanta birra, patatine, salame e formaggio, nachos piccanti preparati in un microonde rintracciato nel bagno (!!!); le mie colazioni salate a base di arancini, cunzato o sfincione (sono monotona lo so …), consumate sotto gli sguardi attoniti degli altri che addentavano ipercalorici dolci alla ricotta, accompagnati da generose dosi di caffè, al quale abbiamo insegnato anche la strana arte della partenogenesi.
In questa vacanza abbiamo imparato che in Sicilia i sapori sono intensi tanto quanto i colori di questa Terra, che l’aglio è onnipresente tanto quanto le acciughe; che il pesto alla trapanese è buonissimo, ma i sughi di pesce lo sono di più; che la pepata di cozze è veramente pepata e che avanzare qualcosa nel piatto è “davvero un suicidio” [cit.]; che gli arancini sono buoni a tutte le ore, ma che la birra è migliore se bevuta in spiaggia al tramonto; qualcuno, poi, ha anche scoperto la vera forma dei finocchi!
Abbiamo imparato che la 500L è una macchina bruttissima a vedersi, ma tanto spaziosa da accoglierci comodamente in sette; che in aeroporto è indispensabile arrivare in anticipo e che l’ “ampio margine” non sempre è conveniente (almeno non come lo intendono Luca e Matteo); e che in mancanza di una stazione radio decente in auto possono scatenarsi discussioni politiche degne dei salotti televisivi più trash.
Abbiamo capito che in Sicilia fa caldo anche a ottobre, che le falesie assolate sono da affrontare la mattina presto e che partire con in valigia il piumino ma senza pantaloni leggeri potrebbe rivelarsi un epic fail; che i fichi d’india pungono e che se si lascia una pizza in bella vista un cane potrebbe, accidentalmente, mangiarsela ...
Abbiamo imparato che, a volte, nei bagni delle case si trovano cose strane, come un forno a microonde, e che invece che farsi domande è meglio fare i nachos; e che dire “cos’altro può succedere” dopo aver elencato una serie di sventure non può far altro che chiamarne di nuove …

E anche se la stagione è ormai finita e ci prepariamo per la neve, con la testa stiamo già a progettando l’anno a venire; seduti attorno ad un tavolo, con le mani ancora sporche della magnesite di una delle ultime domeniche di roccia, si sogna la Sardegna, ma forse prima la Spagna, e perché no? una tenda e le Calanques; ma prima c’è da pensare all’epifania rampicante, la cui organizzazione di solito spetta a me. e tra un sogno e l’altro arrivano le birre e così, di nuovo, come tante volte abbiamo fatto, brindiamo a noi e a questa vita … pace, amore e gioia infinita.
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sabato 1 novembre 2014

I sogni non hanno grado

Non era un "sogno" di quelli grandi, belli e impegnativi, degni dei migliori climber di tutto il mondo. Non ne erano protagoniste quelle pareti lisce, difficili tecnicamente e psicologicamente, che sembrano inviolabili e tali rimangono per la maggior parte delle persone.
Il mio era un sogno più modesto, facile, ripetuto da molti, alla portata di tutti, soprattutto dei Pippons.
Però era un sogno … un sogno mio e del socio.
Da tempo, infatti, progettavamo di salire la Corma di Machaby, o Paretone di Arnad, come lo conoscono in tanti.
Da tempo sognavo di rimettere le mani su Bucce d'Arancia, via con la quale avevo un conto in sospeso da due anni esatti, dal corso di arrampicata libera, quando avevo dovuto abbandonarla a metà. Troppo lunga la via, con i suoi 9 tiri e 280 metri, troppo impegnativa, ed io e la compagna di cordata troppo inesperte e poco allenate per affrontarla, soprattutto di testa. Alla quinta sosta avevamo dovuto abbandonare, si era fatto troppo tardi, e scendere in doppia.
Ma mi era rimasto un che di sospeso, una questione irrisolta. Da due anni, ogni volta che ripassavo da quelle parti, osservavo il Paretone, e con gli occhi gli promettevo che sarei tornata, che avrei affrontato la parete, e che questa volta avrei vinto io.
Il socio si era fatto contagiare dal mio sogno e ne parlavamo da inizio stagione, da quando ho comprato le mezze e siamo diventati, oltre che amici, una cordata.
Ma vuoi per il meteo, vuoi per l’inesperienza iniziale che ci aveva tenuti alla larga dal Paretone, vuoi perché in estate quella placconata esposta in pieno sole è impraticabile, il sogno era rimasto tale.
Era un sogno.
Non lo è più.
Ce lo siamo andati a prendere quel sogno.
Più o meno.
Perché il sogno, quello vero, Bucce d'Arancia, era troppo affollato. Quattro cordate da tre davanti a noi promettevano un’attesa di almeno un’ora alla base e intasamento alle soste; non avevamo voglia di aspettare e abbiamo ripiegato su Diretta al Banano, altrettanto facile, altrettanto plaisir, meno affollata: una sola cordata con noi, un paio su Anchorage e una su Galion, con le quali, salendo in parallelo uno accanto all’altro, sempre a portata di voce, facciamo anche amicizia di sosta in sosta, ridendo e scherzando, sopportando meglio le folate di vento gelido che da metà parete in poi tormentano tutti quanti.
In 5 ore siamo fuori, in cima alla Corma.
Il sogno si è realizzato, anche se a metà: il Paretone lo abbiamo conquistato, ma non Bucce d'Arancia ...

... posso ancora sognare ...
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