da leggere ascoltando Negrita - Gioia Infinita ... la colonna sonora della vacanza
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Non tutti i viaggi sono
uguali; non tutte le vacanze hanno lo stesso sapore.
Alcune come arrivano
passano; e non è che non ti lasciano nulla, ma non sono quelle che ricorderai per
i mesi a venire.
E poi ci sono quei
viaggi, quelli belli davvero, che per il luogo visitato e le persone con cui
hai vissuto l’esperienza, si appiccicano alla pelle, e non riesci più a
scacciarne via ricordi e nostalgia. Sono quelle vacanze così piene di sole e
risate da far tanto bene all’anima, che ti fanno pensare che, infondo, la vita
è bella ed è bello viverla. E condividerla, nelle gioie e nelle sconfitte,
condividere i sorrisi, le canzoni, le fatiche; i giorni di sole e quelli di
pioggia; le sveglie sentite e quelle ignorate; i tramonti in falesia e quelli
in spiaggia.
Così era stata
Kalymnos, così è stata San Vito lo Capo.
Forse per la compagnia
ormai rodata, lo zoccolo duro degli Abbracci Verticali, forse perché, tutto
sommato, siamo persone alle quali bastano una birra e dei nachos per essere
felici, ma la trasferta sicula del nostro piccolo, grande gruppo è stata
qualcosa di indimenticabile, con momenti di assoluta ilarità. E mi risulta
difficile raccontare nel dettaglio i nove giorni trascorsi in terra siciliana,
tanto che da più di un mese sto cercando di scrivere queste poche righe, cancellando
e cambiando parole che non riescono ad esprimere del tutto emozioni e
sensazioni, quelle “scosse forti all’anima che nessuno scorderà più”
Cosa rimane in mente
della Sicilia? Sicuramente i colori: la terra rossastra, che contrasta con il
verde dei fichi d’india e degli arbusti della macchia mediterranea; il calcare
giallo, rosso e grigio che si staglia contro il cielo azzurrissimo; la sabbia
bianca della spiaggia di San Vito, il mare verdazzurro, che si tinge d’oro al tramonto
e gli scogli neri delle altre calette.
Le falesie, che sono
qualcosa di imbarazzante tanto sono belle: un calcare giovane, tagliente,
ferocemente doloroso, dove sono state chiodate linee molto varie e articolate,
a volte logiche, altre meno, dalle placche a gocce alle grotte, dai muri
verticali, fatti di concrezioni e sporgenze affilate come rasoi (le mie povere
gambe ne sanno qualcosa), ai passi boulderosi in forte strapiombo, su buone
maniglie che a volte si stringono e a volte sembrano mordere i palmi delle
mani. E poi buchi, lame, fessure, diedri, inaspettate clessidre “belle belle in
modo assurdo!” che risolvono un rinviaggio altrimenti un po’ precario.
Cosa ricordare delle
falesie sanvitesi? Sicuramente la gradazione casuale, dove un 5b è una scala a
pioli in un settore e in un altro è un tiro da infarto; la chiodatura
fantasiosa, con buoni buoni quattro metri tra un chiodo e l’altro, anche quando
in mezzo c’è un passo duro sotto un tetto; i passi ostici e i passi “porca troia”;
la salsedine depositata sulla roccia, che si mischia al sudore e alla magnesite
sulle mani, creando un terrificante effetto pappetta, deleterio per la tenuta.
Le vespe e i
“calabresi” (soprannome affibbiato ai calabroni per renderli un pochino più …
simpatici …), che vedi ronzare minacciosi accanto al tiro che vuoi fare, lassù
a dieci metri da terra, e che iniziano a ronzarti attorno mentre scali, ancora
più minacciosi, e pensi “ma chi cazzo me l’ha fatto fare! Aiuto voglio
scendere!” ma ormai sei lì, e il tiro va smontato. E quelli che inizialmente
non ci sono ed escono solo dopo, incazzati quanto basta, costringendo quattro
persone a fuggire a gambe levate.
Il caldo torrido a metà
ottobre, che ci fa consumare litri e litri d’acqua per bagnarci i capelli e
poter scalare senza andare in ebollizione; e che ci fa fuggire ad Erice il
giorno in cui l’acqua, ahimè, l’abbiamo dimenticata.
La nostra “piccola
comunità rampicante” (cit. Laura B.) ha dato il meglio (… e, a volte, anche il
peggio) di sé su quei muri di calcare.
Qualcuno ha
letteralmente lasciato il sangue sulla roccia tagliente, imbrattando anche i
rinvii; i più hanno lasciato ogni giorno qualche centimetro di pelle.
Ognuno di noi ha
portato a casa qualche piccolo successo personale: chi ha iniziato scalando sui
quarti e a fine vacanza ha scalato sui sesti; chi ha imparato le manovre di
sosta, non senza qualche perplessità; chi ha scoperto che forse i passaggi
sotto i tetti non sono poi così impossibili; chi prova a dare consigli a
qualcuno, e questo qualcuno sistematicamente fa l’opposto (scusami Luca, giuro
che non lo faccio apposta!).
Grazie a Davide e
Matteo, poi, abbiamo capito che si può essere molto gentili anche in falesia
(“per favore Matteo, potresti bloccarmi un po’?”) e Laura B. ha subito provato
a mettere in pratica i consigli (“Blocca!”, “Bloccata!”, “Grazie!”), capendo
però che, sospesa a svariati metri da terra, la gentilezza non è esattamente
nelle sue corde (“Eli, però, parancami su un po’, cazzo!”). Dal canto mio ho
fatto ampiamente risuonare le mie parolacce per tutte le falesie,
fortunatamente piene di crucchi che mi auguro non abbiano del tutto capito.
Dalla Sicilia siamo
tornati tutti con qualcosa in più, ricordi, esperienze, ma soprattutto … chili!
Perché se è vero che si mangia bene in tutta Italia, in Sicilia si mangia
benissimo.
E noi siamo una
comunità di buongustai. O per lo meno di mangioni.
Apriamo le culinarie
danze io ed Elisa con un epico arancino alle 9.07 del mattino, appena atterrate
all’aeroporto di Palermo. E chiuderemo ancora io ed Elisa con il pane cunzato,
indecentemente unto e ripieno, sempre in aeroporto, al ritorno.
Tra il primo arancino e
l’ultimo pane cunzato c’è stato il delirio! Un delirio fatto di cene a base di
pesce fresco, frutti di mare, couscous, busiate variamente condite, caponata,
pizza e, a volte, un po’ di verdura, il tutto innaffiato da bianchi trinacri e
amari della casa dai colori, a volte, un po’ inquietanti; un delirio di cene ma
anche di apertivi caserecci a suon di birra, tanta birra, patatine, salame e
formaggio, nachos piccanti preparati in un microonde rintracciato nel bagno
(!!!); le mie colazioni salate a base di arancini, cunzato o sfincione (sono
monotona lo so …), consumate sotto gli sguardi attoniti degli altri che
addentavano ipercalorici dolci alla ricotta, accompagnati da generose dosi di
caffè, al quale abbiamo insegnato anche la strana arte della partenogenesi.
In questa vacanza abbiamo
imparato che in Sicilia i sapori sono intensi tanto quanto i colori di questa
Terra, che l’aglio è onnipresente tanto quanto le acciughe; che il pesto alla
trapanese è buonissimo, ma i sughi di pesce lo sono di più; che la pepata di
cozze è veramente pepata e che avanzare qualcosa nel piatto è “davvero un
suicidio” [cit.]; che gli arancini sono buoni a tutte le ore, ma che la birra è
migliore se bevuta in spiaggia al tramonto; qualcuno, poi, ha anche scoperto la
vera forma dei finocchi!
Abbiamo imparato che la
500L è una macchina bruttissima a vedersi, ma tanto spaziosa da accoglierci
comodamente in sette; che in aeroporto è indispensabile arrivare in anticipo e
che l’ “ampio margine” non sempre è conveniente (almeno non come lo intendono
Luca e Matteo); e che in mancanza di una stazione radio decente in auto possono
scatenarsi discussioni politiche degne dei salotti televisivi più trash.
Abbiamo capito che in
Sicilia fa caldo anche a ottobre, che le falesie assolate sono da affrontare la
mattina presto e che partire con in valigia il piumino ma senza pantaloni
leggeri potrebbe rivelarsi un epic fail; che i fichi d’india pungono e che se
si lascia una pizza in bella vista un cane potrebbe, accidentalmente,
mangiarsela ...
Abbiamo imparato che, a
volte, nei bagni delle case si trovano cose strane, come un forno a microonde,
e che invece che farsi domande è meglio fare i nachos; e che dire “cos’altro
può succedere” dopo aver elencato una serie di sventure non può far altro che
chiamarne di nuove …
E anche se la stagione
è ormai finita e ci prepariamo per la neve, con la testa stiamo già a progettando
l’anno a venire; seduti attorno ad un tavolo, con le mani ancora sporche della
magnesite di una delle ultime domeniche di roccia, si sogna la Sardegna, ma forse
prima la Spagna, e perché no? una tenda e le Calanques; ma prima c’è da pensare
all’epifania rampicante, la cui organizzazione di solito spetta a me. e tra un
sogno e l’altro arrivano le birre e così, di nuovo, come tante volte abbiamo
fatto, brindiamo a noi e a questa vita … pace, amore e gioia infinita.