domenica 26 marzo 2017

John Wick - Capitolo 2



Nella settimana in cui tutti si stipano nelle sale per vedere La Bella e la Bestia, io decido di godermi, in una sala quasi vuota di mercoledì sera, John Wick – Capitolo 2.
Devo ammettere una seria intolleranza nei confronti delle Principesse Disney: non mi piacciono e non guardo volentieri i film originali, figuriamoci i live action. De La Bella e la Bestia ho visto una volta il film originale quando ero piccola, al cinema, e mi ha lasciata del tutto indifferente. Quindi, no grazie! Al bullo Gaston preferisco il killer Keanu Reeves!

Partiamo dal presupposto che è un film d’azione del tutto votato agli amanti delle pellicole “spara-spara” e non uno dal quale si possa pretendere chissà quale profondità di temi trattati.
La trama comincia esattamente dove era finito il primo, con John che deve chiudere i conti con la famiglia Torasov, ancora in possesso della sua auto. I primi dieci minuti del film sono quindi una muta sequenza d’azione, inseguimento e scazzottata finale che regge ampiamente il confronto con i migliori Fast&Furious. 


Recuperata la macchina, in pessime condizioni per altro, inizia la trama vera e propria di questo secondo capitolo: John vorrebbe abbandonare la sua “professione” e vivere in pace con il suo nuovo cucciolo nella villa, che sembra uscita direttamente dalle pagine di una rivista di arredamento, ma non può. Il camorrista Santino D’Antonio (Riccardo Scamarcio) si presenta alla sua porta venuto a riscuotere un pegno di sangue.
Entriamo così più a fondo nella società di assassini, fatta di regole severe e codici d’onore ai quali non ci si può sottrarre pena la morte, e sulle quali vigila implacabile un Ian McShane strepitoso, gestore del Continental.
I pegni di sangue devono essere pagati, così John non fare altro che recarsi a Roma per uccidere Gianna D’Antonio, sorella di Santino, interpretata da una splendida Claudia Gerini.


Come ho già detto in questo film si esplora molto di più quel mondo dei killer appena accennato nel primo film, un mondo surreale e fuori dal tempo, dove case che starebbero bene sulle pagine di GQ si affiancano a cellulari del duemila, a tatuatissime segretarie pin-up anni cinquanta, a un albergo in perfetto stile dandy e a una festa techno nei Fori Imperiali di Roma; in questo mondo si paga in monete d’oro, i sarti confezionano completi eleganti su misura dove inseriscono gli ultimi ritrovati tecnologici in fatto di tessuti e materiali e le armi si scelgono nella cantina di un sommelier.
È un film sopra le righe, sa di esserlo e vuole esserlo, eppure tutto questo troppo non stroppia: Keanu Reeves è perfetto per il ruolo, abbastanza “mainagioia” e poco espressivo, impeccabilmente educato ed elegante come la società degli assassini impone.
Le sparatorie e i combattimenti corpo a corpo sono coreografie perfettamente riuscite e calibrate, in cui Reeves è credibile persino, o forse proprio, nel suo essere un po' legnoso; e poco importa se da solo uccide quasi 150 persone nelle due ore di pellicola, nulla appare esagerato, anzi è tutto funzionale ad un piacere visivo che poco si trova nelle pellicole di questo tipo, che spesso si prendono troppo sul serio oppure scadono nella comicità troppo grossolana.
John Wick – capitolo 2 è un piacere per gli occhi: non c'è un attimo di pausa visiva nel film, con continui cambi di scenografia e di colori. Basti solo pensare al nero dirompente dei primi dieci minuti in contrapposizione alla sparatoria, esilarante per altro, tra Reeves e Common a sfondo totalmente bianco; o alle due sequenze di azione più lunghe, l'una nelle catacombe romane e l'altra, in netto contrasto, nel museo d'arte moderna che culmina nel labirinto degli specchi.


Niente da dire: questo secondo capitolo è puro divertimento, e poco conta una trama forse non del tutto all'altezza delle aspettative, ogni scelta è funzionale all'action ed è, per tanto, perfettamente azzeccata.

Voto: 9.
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martedì 21 marzo 2017

Westworld




A me e a lui piace guardare alcune serie TV insieme, esclusivamente insieme; non tutte, sia chiaro, perché ognuno ha quelle che guarda indipendentemente dall’altro (di Black Sails lui ha visto solo la sigla ed Agents of Shield io so solo che esiste) e poi ci sono quelle che guardiamo entrambi ma ognuno a casa sua (Once Upon a Time ad esempio).
Ma altre fanno parte di quell’insieme di piccole cose che amiamo condividere, e l’ultima in ordine di tempo è stata Westworld, serie HBO del 2016.
Ne avevamo sentito parlare molto bene e inoltre il marchio HBO ci sembrava una garanzia di qualità; abbiamo deciso di darle una possibilità ed eccomi qui a recensirla, anche se è molto difficile scrivere di Westworld senza fare spoiler, ma ci proverò.
Innanzitutto qualche considerazione di carattere generale: la serie è breve, 10 episodi da 50 minuti, e io amo molto questa scelta stilistica; trovo che concentrare una stagione in pochi episodi permetta sia una maggiore cura dei dettagli, che poi dettagli non sono, come costumi, scenografia e fotografia, sia una maggiore pulizia nella scrittura del plot, che rimane focalizzato sulla trama senza divagazioni necessarie alla scrittura di episodi “riempitivi” o la suddivisione in due mid-seasons.
In secondo luogo HBO è effettivamente garanzia di qualità, basti pensare a titoli quali Game of Thrones, True Detective, True Blood, I Soprano (solo per dirne alcune …) e Westworld non si smentisce, e se pensiamo che l’ideatore è un certo Johnatan Nolan e tra i produttori esecutivi figura J.J. Abrams, il successo è quasi assicurato.
La trama è tratta dal film di Michael Crichton Il Mondo dei Robot e racconta di un parco a tema vecchio west popolato da androidi e creato per garantire ai ricchi visitatori un’esperienza western il più realistica e violenta possibile: nel parco ai visitatori è concesso tutto, anche uccidere i residenti (gli androidi). Il direttore creativo del parco, il dottor Robert Ford, aggiorna costantemente gli androidi con delle stringhe di comando chiamate “ricordanze”, che dovrebbero renderli sempre più simili agli umani, ma questi input tendono a prevalere sui comandi preimpostati e rendono instabili i robot, che iniziano a farsi domande, a prendere coscienza della loro situazione, fino a tentare la ribellione.


Mettiamo le cose in chiaro: Westworld è un casino!
Senza entrare nel dettaglio per non fare spoiler, gli showrunner hanno giocato con lo spettatore allo stesso modo con cui i creatori del parco giocano con gli androidi: gli autori hanno deliberatamente voluto confondere gli spettatori utilizzando il loop narrativo, le ricordanze, le voci nella mente, la timeline che si sviluppa su diversi piani esattamente come gli sceneggiatori delle narrazioni del parco, e Ford sopra di loro, fanno con i residenti. Lo spettatore quindi si trova a condividere gli stessi sentimenti di smarrimento dei robot davanti ai dettagli che vengono via via rivelati ma che non riesce immediatamente a capire, o neppure a percepire. Westworld è in questo senso uno dei più alti esempi di meta-scrittura, una sceneggiatura nella sceneggiatura e per questo è una serie che va capita e decifrata, indizio dopo indizio. Gli autori hanno disseminato gli episodi di cliffhanger e rimandi per accompagnare lo spettatore nel suo percorso attraverso il labirinto; il compito dello spettatore è quello di coglierli, se riesce, e farsi guidare.


In teoria Westworld avrebbe potuto essere niente di nuovo: un parco a tema popolato da robot (chi non ricorda Jurassic Park, per altro sempre di Crichton?) dove gli androidi che prendono coscienza e si ribellano … no, in effetti nulla di nuovo sotto il sole; ma è il modo in cui gli sceneggiatori hanno utilizzato una base narrativa già ampiamente vista per riflettere su temi molto più duri e profondi, a partire dallo sviluppo dell’autocoscienza, con la citazione di un saggio semisconosciuto dello psicologo Julian Janes intitolato “Il crollo della mente bicamerale e l’origine dell’autocoscienza” (non per nulla l’ultimo episodio si intitola The Bicameral Mind), rappresentato dalla ricerca del centro del labirinto. Un altro tema fortemente indagato è quello della dualità della natura umana e dell’etica: in un mondo dove tutto è concesso, dove gli ospiti si possono permettere di compiere i peggiori soprusi nei confronti degli androidi, proprio perché macchine, la scelta tra cappello nero e cappello bianco è più che una semplice scelta basata sul “tu da che parte stai?”; è una scelta che prevede il mantenimento della propria integrità morale, il rifiuto di uccidere una macchina solo per il gusto di farlo, il mantenimento di tutti quei principi che ci rendono uomini e non solo esseri umani.
Insomma Westworld è una serie difficile e bellissima allo stesso tempo, che vanta una scrittura stupefacente, ma anche il comparto tecnico ha svolto un lavoro straordinario: una fotografia curata all’inverosimile, che vive della dicotomia tra il luminoso, caldo, assolato esterno del parco e il buio, freddo e artificiale ambiente degli uffici della compagnia; la regia è quasi impeccabile, con riprese che portano lo spettatore all’interno della scena, campi lunghi estremamente emozionanti e un montaggio che, soprattutto negli episodi finali, contribuisce ad aumentare l’effetto di confusione che la serie vuole trasmettere.


Ma il grande merito della riuscita di Westworld va ad un cast eccezionale, partendo da una Evan Rachel Wood strepitosa nei panni dell’androide Dolores, umana e confusa come non mai, senza mai perdere la credibilità del suo essere una macchina; allo stesso modo Jeffrey Wright (Bernard) del quale non posso scrivere nulla senza fare enormi spoiler, ma la cui interpretazione è pazzesca.
E poi lasciatemi parlare dell’immenso Anthony Hopkins nei panni di Robert Ford,il creatore del parco, colui che tutto può controllare e tutto controlla; Hopkins l’ha reso inquietante e pericoloso nel suo sembrare assolutamente innocuo: ogni parola dalla su bocca esce minacciosa, per quanto Ford non abbia mai fatto male a nessuno, perlomeno non personalmente. Dovrebbe essere il vero “cattivo” della serie, ma forse infondo no, non è un cattivo, bensì il Dio del parco e come tale si comporta, senza remore e senza rimpianti, anche nell’incontro scontro con l’altro grande “villain” della serie, un Ed Harris magistrale nell’interpretazione dell’Uomo in nero.
Westworld non è solo questo, ma come dicevo è difficile scrivere di questa serie che si basa sui dettagli come poche altre senza spoilerare nulla, anche se forse qualche piccolo indizio qui e lì l'ho disseminato.

L’unica cosa che ancora posso dire è: guardatela! Io intanto attendo il 2018 per la seconda stagione.  
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giovedì 16 marzo 2017

Logan - The Wolverine


Ammetto di avere problemi riguardo ai film sugli X-Men: li ho sempre trovati lenti. Andai a vedere il primissimo film al cinema, e già allora, ai miei occhi di sedicenne (era il lontano 2000), risultò noioso; poi a tempo perso ho guardato anche i successivi due, e mi ero ripromessa di non ripetere l’errore un’altra volta.
Però lui è un appassionato della saga dei mutanti e lo scorso venerdì siamo andati al cinema a vedere Logan, l’ultimo della serie di film dedicati a Wolverine.
Il film è liberamente ispirato ad una grafic novel del 2008 intitolata Vecchio Logan.
Siamo nel 2029 e i mutanti sono quasi estinti a causa di un virus creato dalla Transigen, una compagnia controllata dalla Essex Corp (ricordate la scena post credits di Apocalypse?); un Logan notevolmente invecchiato sopravvive lavorando come autista di limousine e, insieme a Calibano, si prende cura dell’ormai novantenne Professor Xavier, costringendolo a vivere nel deserto oltre il confine messicano, rinchiuso in un vecchio silo, poiché non più in grado di controllare i suoi poteri psichici a causa di una malattia neurodegenerativa.
Tutti gli altri mutanti sono stati uccisi un anno prima proprio in seguito ad una crisi psichica di Xavier.
Una notte Logan viene contattato da una donna, Gabriela, che lo implora di prendere con sé una ragazzina, Laura, e di raggiungere con lei il Nord Dakota, e in particolare un posto chiamato Eden. Laura si rivela essere la figlia di Logan e una mutante anch’essa, con la stessa mutazione di Wolverine, creata dalla Transigen attraverso un campione del suo DNA, e classificata come X-23 e l’Eden altro non è che un posto sicuro per i mutanti.


La pellicola è la chiusura della trilogia su Wolverine, definitiva poiché lo stesso Jackman ha dichiarato di non voler più interpretare Wolverine, ma allo stesso un grande e potenziale trampolino di lancio per una nuova, eventuale serie di film con protagonisti i Nuovi Mutanti.
Vi avverto, se non avete visto il film e non volete spoiler, o se siete troppo sensibili ai feels non proseguite nella lettura; alla fine del film tutti i vecchi X-Men muoiono: muore Xavier, trafitto da un secondo clone di Wolverine (interpretato dallo stesso Jakman); muore Calibano, sacrificatosi per la causa; e alla fine muore persino Logan.
Sopravvivono però i ragazzini, i giovani mutanti creati dalla Transigen, e in particolare X-23, personaggio troppo amato e troppo ben scritto per lasciarlo isolato in questo film, a mio personalissimo parere.
Che questo film rappresenti una svolta nell’universo cinematografico X-Men, pronto ad una ventata di novità, nuove storie e nuovi personaggi? Staremo a vedere …
Di fatto il film è ben diverso dagli altri della serie cinematografica: è molto più ruvido, e allo stesso tempo molto più umano. Logan non è il solito Wolverine “so’ figo solo io”, ma un ex eroe ormai vinto, stanco di combattere, che preferisce sopravvivere nascosto nell’ombra e preoccuparsi che il suo anziano mentore non diventi una minaccia per gli altri e per se stesso. C’è qualcosa di poetico in quel rapporto quasi padre-figlio tra Logan e Xavier, ma anche tutta l’amarezza delle stagioni che se ne vanno e del decadimento inevitabile di un corpo mortale, benché mutante.
E anche nello strano rapporto con Laura, una ragazzina spezzata, un esperimento mal riuscito, una macchina da combattimento spietata ma che svela via via un bisogno di affetto sempre più forte emerge prepotentemente l’umanità di Wolverine, prima restio ad accollarsi la responsabilità di un altro essere umano, e poi disposto al supremo sacrificio pur di farla fuggire.
Logan è anche un film molto più violento degli altri della serie, e finalmente oserei dire, perché tutti i precedenti erano un pochino troppo patinati e fumettosi da questo punto di vista, troppo adeguati allo standard “film per famiglie”; tranne Deadpool, ma quello è un capitolo a parte. In Logan invece lo splatter ricorda vagamente Tarantino: volano teste mozzate, gli artigli di Wolverine si infilano nelle carni e nei crani dei suoi nemici, X-23 è una macchina da omicidio spaventosa (egregia l’interpretazione di Dafne Keen); in sostanza scorre il sangue, ma non è fastidioso, né gratuito.


Nonostante i numerosi pregi, però, rimane un film che non mi ha entusiasmato, non mi ha tenuta incollata alla sedia della sala per le lunghissime due ore e venti minuti, anzi ho faticato a rimanere sveglia nell’ultima mezz’ora (ok, forse il secondo spettacolo del venerdì sera non ha aiutato); numerosi sono tempi morti che male si adattano ad una pellicola supereroistica, a conferma del fatto che lo stile dei film sui mutanti a me non convince.
Per completezza di informazione devo dirvi che lui ne è stato entusiasta.


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giovedì 9 marzo 2017

I Due Regni - Le Porte di Eshya




Vi avevo già parlato qui de “La città Intera”, il primo libro della saga fantasy intitolata I due Regni, dicendovi quanto mi era piaciuto questo esordio editoriale della giovanissima Alessia Palumbo.
Oggi sono qui a parlarvi del secondo libro della saga, ovvero Le Porte di Eshya.
Chi mi conosce bene sa che ormai mi sono convertita quasi al 100% al libro elettronico, per moltissimi motivi che non vi sto a spiegare qui ed ora (magari farò un post apposito in futuro …), ma questa volta ho deciso di fare un’eccezione, perché l’autrice, nei mesi antecedenti all’uscita, mi ha proposto di acquistare una copia cartacea del suo secondo romanzo, numerata e autografata e ho accettato. Ho scritto acquistare, perché sì, il libro l’ho comprato: non è un post sponsorizzato questo (ahahahahaha … post sponsorizzato … ahahahahaha). Ci tengo a sottolinearlo per garantire che tutto quanto scritto qui lo penso sinceramente.
Questa la trama del libro:

La Città Intera è più forte che mai e Farwel, persa nei suoi oscuri meandri, si accorge a sue spese che non può fronteggiare questo colosso da sola. In attesa del momento giusto per agire, continua a servire la Comandante nelle vesti di Asur, non immaginando i pericoli che si celano ad ogni angolo. Intanto, da giovane, prima dell'avvento della Città Funesta, la protagonista sarà costretta ad affrontare le conseguenze del Rito di Drator e del suo malvagio marchio che la perseguiterà per tutti gli anni a venire.
In una morbosa spirale che avvolge il lettore dalla prima all'ultima pagina, continua l'avvincente storia di Farwel e di un Delor devastato dalla guerra civile

Se il primo libro ve lo avevo caldamente consigliato, questo secondo ve lo stra-consiglio!
È tangibile la crescita dell’autrice insieme alla storia: le pagine scorrono rapide grazie ad uno stile fluente e mai pesante; per quanto la scrittura sia ricercata, a tratti aulica, le parole studiate e i periodi curati, non scade mai nella pedanteria o nel lezioso. Nella struttura del libro continua l’alternarsi di capitoli ambientati nel presente e capitoli che raccontano le vicende del passato di Farwel, in un continuo rincorrersi di eventi che portano il lettore a voler proseguire la lettura per scoprire che cosa succede dopo.
Anche la trama è cresciuta: se nel primo libro su tutto dominava Farwel e gli altri personaggi erano un contorno utile e ben riuscito, ma pur sempre un contorno, questa volta la protagonista è calata in un contesto molto più corale, dove gli altri personaggi diventano fondamentali per la narrazione tanto quanto la nostra Incantatrice.
È possibile dividere la storia in due metà distinte, nelle quali individuiamo delle coppie di personaggi: una prima metà è dominata dal dualismo Farwel/Asur, dove le due personalità che abitano lo stesso corpo cercano di prevalere l’una sull’altra, che poi si interfacciano entrambe, ma in modo diametralmente opposto, con la Comandante; la seconda metà del libro è dominata dalla coppia non-coppia Farwel/Idai, dal loro passato condiviso, dai sentimenti necessariamente repressi in nome di una causa più alta. Finalmente conosciamo Idai, il grande amore di Farwel, che nel primo libro era stato solamente un nome sospeso nel passato della maga; e nell’alternarsi delle due dimensioni temporali la figura di Idai è dominante quasi quanto quella di Farwel. Vediamo nascere l’amore tra i due, ancora ragazzi, in un’Accademia che inizia ad essere intaccata dai pregiudizi sulla magia sui quali si fonderà la Città Intera; li vediamo ritrovarsi, nel presente e fare i conti con qualcosa accaduto nel passato, qualcosa che però non ci verrà ancora svelato, che pesa sul presente ma che deve essere messo da parte in nome di una missione più grande e importante.
Iniziamo a capire, in questo libro, gli effetti che ha su Farwel quanto accaduto durante il Rito di Drator, e intuiamo che il segno sul suo serbatoio magico potrebbe essere la causa di quanto non è ancora stato detto nel passato e la chiave di volta per affrontare la Città Intera nel presente.
Come vi dicevo è un libro molto più maturo del precedente ed è proprio in queste dinamiche tra i personaggi che la maturità dell’autrice emerge.

Se devo trovare dei difetti, posso dire che non ho apprezzato molto la sottotrama riguardante il libro letto da Farwel ai tempi dell’Accademia; l’ho trovata una storia un po’ troppo banale rispetto a tutto il resto e una vicenda che nulla aggiunge e nulla toglie a quella principale, anzi devo dire che questi capitoli hanno disturbato la lettura, interrompendo l’alternarsi armonico delle trame principali. Spero che nel prossimo libro anche questa sottotrama trovi un suo posto all’interno della narrazione principale e che mi faccia ricredere di quanto appena scritto. Vi farò sapere.

Per concludere, le Porte di Eshya è un libro eccellente, ben scritto e strutturato, molto avvincente; in poco tempo il lettore si trova ad affezionarsi ai personaggi che si muovono lungo capitoli che non sono mai banali né noiosi, in un mondo credibile e ben descritto, con le sue caratteristiche e le dinamiche che lo muovono al suo interno; in un genere, il fantasy, dove normalmente la figura del mago è dipinta come una sorta di deus ex machina onnisciente e onnipotente, qui i maghi sono perseguitati proprio per la loro natura, in una società intrisa di pregiudizi razzisti. Difficile credere che un’autrice tanto giovane sia riuscita ad allontanarsi tanto dai clichè di un genere troppo spesso uguale a se stesso.

Trovate il libro in vendita su Amazon, IBS , sia in formato cartaceo che elettronico, ma il mio consiglio è di cercare Alessia alle prossime fiere e scambiare due chiacchiere con lei!


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martedì 7 marzo 2017

Cartoomics 2017




Il 3-4-5 marzo scorso si è svolta al polo fieristico di Rho la fiera più grossa e importante del Nord Italia, con ben 21 edizioni alle spalle: Cartoomics.
La fiera occupava ben due padiglioni e vi posso assicurare che non sono pochi, visto che ho dovuto attraversarla di corsa domenica sera perché avevo dimenticato nei camerini il mio bastone da maga prima di tornare a casa. Sì, lo so, sono un genio.
Come sempre succede, il sabato è stata una giornata abbastanza vivibile: io e Alice abbiamo girato con calma la fiera, portando in coppia Daenerys (vedete la foto qui sopra di Fabio Ghezzi) e Melisandre; domenica invece mi hanno detto esserci stato un bordello assoluto, ma io la giornata l’ho passata dietro al palco in preda all’ansia pre-gara! XD
Ammetto che, vagabondando tra gli stand, l’area fumetti e l’area gaming non me le sono filate neanche di striscio; un po’ perché la prima, complici i molti stand di case editrici importanti (Panini Comics, Yamato, Bonelli, Star Comics), è sempre molto affollata, un po’ perché la mia esperienza da gamer è terminata circa venti anni fa (sigh) con il Super Nintendo.
In compenso ho gravitato molto a lungo nell'area fantasy e in zona palco.
Nel villaggio fantasy mi sento sempre a casa, vuoi perché sono sempre stata una divoratrice compulsiva di libri/film/serietv che comprendono maghi, draghi, cavalieri, duelli di cappa e spada, vuoi perché in quest’area si trova lo stand con la birra più buona di tutta la fiera, La Tana dell’Elfo (ve ne avevo già parlato nel post di Novegro). No davvero, cercatelo alle prossime fiere, se non l’avete ancora fatto, perché le loro birre e sono eccezionali! Io e i soci attraversavamo tutti e due i padiglioni, dall’area palco al Villaggio Medievale, solo per prendere la birra; non so se mi spiego.
Inoltre nell’area fantasy trovo sempre molti autori interessanti, che al contrario di Novegro non sono dislocati qui e là in mezzo agli altri stand, ma radunati tutti l’uno accanto all’altro, ed è quindi molto più facile individuarli; tra questi vi segnalo di nuovo la giovanissima Alessia Palumbo di cui vi avevo parlato qui e della quale vi riparlerò a breve.
In realtà ho preso qualche volantino e chissà che in futuro non scriva altre recensioni.
Tornando verso il palco abbiamo attraversato la fornitissima, ma molto cara, area food (4€ un cartoccino di patatine fritte …) e tutte le aree tematiche dedicate all’action e alla fantascienza. Erano presenti la sempre fantastica Umbrella Corporation con le scenografie e i figuranti di Resident Evil, un ring sul quale si svolgevano incontri di wrestling (!!!) e un intero spazio dedicato a Star Wars.
Come a Novegro, ma meno numerosi, nell’area palco erano posizionati alcuni stand gestiti direttamente da gruppi di cosplayer; tra tutti nomino soltanto il gruppo OnceUpon a Time Cosplay Italia, gestito dalla bravissima Stefania, perché li conosco personalmente e sono tutti davvero ottimi cosplayer, nonché molto simpatici e disponibili; e poi lui era presente allo stand il venerdì, nei panni di Rumplestiltskin, quindi sono un pochino di parte!


Come vi anticipavo domenica ho partecipato al Gran Cosplay Contest organizzato da EPICOS con il mio original fantasy (sopra una foto di me sul palco scattata da Mattia Lunardi). A parte l’attesa estenuante (ero la numero 54 interpretativa, dopo circa altri 30 non interpretativi), a parte l’ansia crescente, devo dire che sono soddisfatta della mia esibizione. Un mega grazie a lui e a tutti quelli che mi hanno tenuto compagnia dietro al palco.
Lo staff organizzativo di Epicos in questo senso si è rivelato assolutamente fantastico: due ragazze chiamavano i numeri con almeno una quindicina di esibizioni di anticipo, dando così il tempo di prepararsi; una volta in fila una ragazza si informava sulla traccia audio, sulla tempistica di ingresso e quant'altro; appena prima di entrare un altro membro dello staff si assicurava che chi necessitava di microfono lo avesse e di tutto quello ancora poteva servire un attimo prima dell’esibizione. Praticamente nulla è andato storto con circa un centinaio di esibizioni in tutto. Grandi!
L’unica nota veramente stonata, e mi spiace dirlo, erano i due presentatori troppo logorroici: eravamo in tanti cosplayer, davvero in tanti, e sarebbe stato preferibile una conduzione un po’ più rapida, perché la gara, premiazioni comprese, è terminata quando ormai il polo fieristico stava chiudendo, molti si erano già cambiati, qualcuno era già andato a casa, tutti eravamo distrutti!

A parte questo è stata una due giorni favolosa, organizzata molto meglio di Novegro, dove ho rivisto persone belle e ne ho conosciute di nuove altrettanto interessanti; dove ho visto dei cosplay meravigliosi e anche i miei sono stati apprezzati.

Ph Credits: Fabio Ghezzi - Ghez's incredible, Mattia Lunardi - Il Mattia Lunardi
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