L’orologio del pc segna
le 16.40 e finalmente posso correre via dal lavoro, fuori dall’angusto
laboratorio – ufficio dove sono costretta a respirare ogni giorno l’aria
artificiale del condizionatore. Approfittando degli ultimi minuti di necessaria
permanenza, mi sono già cambiata i vestiti. Spengo il pc, sistemo la scrivania
al meglio consentitomi dalla fretta e afferro lo zaino, tenuto nascosto accanto
ai miei piedi tutta la giornata.
Stasera voglio uscire
alla svelta. Stasera vado a scalare.
Fuori dall’ufficio il
caldo umido dell’estate padana mi colpisce con la forza di un martello. Non
importa, so già che a Montestrutto non farà così caldo, o almeno non ci sarà
questa umidità che si appiccica addosso, togliendo il respiro e affaticando il
corpo. Salgo in un’auto che assomiglia più a un forno e schizzo via con i
finestrini abbassati.
Dieci minuti per
raggiungere casa del socio, veloce cambio d’auto e si va.
“Ehi, come va?”
“Ma sì, come al solito”
“Che hai fatto oggi?”
Uno scambio di ovvietà
che ci perdoniamo a vicenda. Allungo i piedi sotto al cruscotto e cerco di
godermi il viaggio. L’abitacolo si riempie con le note delle demenziali canzoni
degli Atroci, mentre il silenzio cala fra di noi; a volte si parla, altre no, e
oggi va così, viaggiamo in silenzio. L’autostrada scivola veloce … cantava una
vecchia canzone, che mi torna in mente mentre guardo distrattamente fuori dal
finestrino il paesaggio passarmi accanto, abbagliata da questo sole di un tardo
pomeriggio di luglio, i capelli scompigliati dall’aria che entra dai vetri
abbassati per resistere al caldo.
Il rosso cupo di un
treno alta velocità sfreccia poco distante, lungo la sua linea dedicata che
corre parallela all’A4, superando prima di noi i prati e i campi che tingono di
verde intenso la pianura. In lontananza le Alpi Graie si confondono
nell’umidità che satura l’aria.
Cullata dalla monotonia
della strada, dal silenzio sospeso nell’abitacolo e dalla stanchezza accumulata,
mi appisolo, sperando di non ritrovarmi troppo stordita dopo.
Un sussulto della
macchina mi sveglia, insieme ad un brusco cambio di direzione: stiamo
imboccando l’uscita di Quincinetto, siamo quasi arrivati e sono le diciotto
circa, in perfetto orario.
L’aria è cambiata: come
prevedevo fa caldo ma non è così umido qui, anzi a volte si alza anche un
piacevole refolo di vento.
Nel parcheggio davanti
alla palestra di roccia ci sono sempre più auto di quelle che mi aspetto da un
giovedì lavorativo, ma gettando un occhio allarmato prima alle pareti e poi al
bar vedo che le prime sono libere, mentre il secondo è fervente di attività
ricreativa; pochi sono i climber presenti, molte, invece, le persone che
vengono qui solo per una merenda con amici e conoscenti, o semplicemente per
trascorrere qualche momento di relax in questo luogo tranquillo.
E come sempre accade in
queste sere, non abbiamo che l’imbarazzo della scelta: la maggior parte dei
settori sono già in ombra e praticabili, almeno quelli bassi, perché il sole è
sceso dietro la montagna ad ovest; in realtà sappiamo benissimo che la roccia
sarà tiepida appena ci appoggeremo le mani, e che le scarpette faranno male
comunque dopo pochi minuti, ma non importa, quello che conta è essere qui,
pronti per scalare, pensando che soltanto un’ora e mezza fa ero chiusa in un
ufficio distante 100 km. Scegliamo la prima “vittima” e via, si comincia.
Lentamente la giornata
muore e le ore trascorrono al ritmo delle salite.
Alle 21 alziamo gli
occhi al cielo, che da celeste si è fatto cobalto, con una nota indaco ad
ovest, e le prime stelle iniziano a fare capolino; il buio sta prendendo il
sopravvento ed è quasi ora di andare. C’è giusto il tempo per un’ultima via,
salita alla luce delle lampade che i gestori del bar accendono per consentire
ai climber di rimanere anche dopo il crepuscolo. Più a lungo non possiamo
restare: un’ora di macchina ci attende per rientrare, con sosta in autogrill
per uno spuntino veloce, e domani, ahimè, il lavoro mi chiama.
Ritirando
l’attrezzatura veniamo assaliti da un nugolo di zanzare e siamo costretti a
sbrigarci a fuggire verso l’auto lungo il vialetto illuminato dalle luci
artificiali.
Voltandomi verso il bar
l’impressione che mi riempie gli occhi è quella di un luogo incantato, una
casetta di legno uscita da qualche favola di gnomi, fate e folletti,
un’immagine da cartolina che spiace quasi lasciare. Ma sappiamo entrambi, io e
il mio socio, che è soltanto un arrivederci alla prossima settimana, almeno
fino alla fine dell’estate.