mercoledì 21 agosto 2013

Montestrutto by night



L’orologio del pc segna le 16.40 e finalmente posso correre via dal lavoro, fuori dall’angusto laboratorio – ufficio dove sono costretta a respirare ogni giorno l’aria artificiale del condizionatore. Approfittando degli ultimi minuti di necessaria permanenza, mi sono già cambiata i vestiti. Spengo il pc, sistemo la scrivania al meglio consentitomi dalla fretta e afferro lo zaino, tenuto nascosto accanto ai miei piedi tutta la giornata.
Stasera voglio uscire alla svelta. Stasera vado a scalare.
Fuori dall’ufficio il caldo umido dell’estate padana mi colpisce con la forza di un martello. Non importa, so già che a Montestrutto non farà così caldo, o almeno non ci sarà questa umidità che si appiccica addosso, togliendo il respiro e affaticando il corpo. Salgo in un’auto che assomiglia più a un forno e schizzo via con i finestrini abbassati.
Dieci minuti per raggiungere casa del socio, veloce cambio d’auto e si va.
“Ehi, come va?”
“Ma sì, come al solito”
“Che hai fatto oggi?”
Uno scambio di ovvietà che ci perdoniamo a vicenda. Allungo i piedi sotto al cruscotto e cerco di godermi il viaggio. L’abitacolo si riempie con le note delle demenziali canzoni degli Atroci, mentre il silenzio cala fra di noi; a volte si parla, altre no, e oggi va così, viaggiamo in silenzio. L’autostrada scivola veloce … cantava una vecchia canzone, che mi torna in mente mentre guardo distrattamente fuori dal finestrino il paesaggio passarmi accanto, abbagliata da questo sole di un tardo pomeriggio di luglio, i capelli scompigliati dall’aria che entra dai vetri abbassati per resistere al caldo.
Il rosso cupo di un treno alta velocità sfreccia poco distante, lungo la sua linea dedicata che corre parallela all’A4, superando prima di noi i prati e i campi che tingono di verde intenso la pianura. In lontananza le Alpi Graie si confondono nell’umidità che satura l’aria.
Cullata dalla monotonia della strada, dal silenzio sospeso nell’abitacolo e dalla stanchezza accumulata, mi appisolo, sperando di non ritrovarmi troppo stordita dopo.
Un sussulto della macchina mi sveglia, insieme ad un brusco cambio di direzione: stiamo imboccando l’uscita di Quincinetto, siamo quasi arrivati e sono le diciotto circa, in perfetto orario.
L’aria è cambiata: come prevedevo fa caldo ma non è così umido qui, anzi a volte si alza anche un piacevole refolo di vento.
Nel parcheggio davanti alla palestra di roccia ci sono sempre più auto di quelle che mi aspetto da un giovedì lavorativo, ma gettando un occhio allarmato prima alle pareti e poi al bar vedo che le prime sono libere, mentre il secondo è fervente di attività ricreativa; pochi sono i climber presenti, molte, invece, le persone che vengono qui solo per una merenda con amici e conoscenti, o semplicemente per trascorrere qualche momento di relax in questo luogo tranquillo.
E come sempre accade in queste sere, non abbiamo che l’imbarazzo della scelta: la maggior parte dei settori sono già in ombra e praticabili, almeno quelli bassi, perché il sole è sceso dietro la montagna ad ovest; in realtà sappiamo benissimo che la roccia sarà tiepida appena ci appoggeremo le mani, e che le scarpette faranno male comunque dopo pochi minuti, ma non importa, quello che conta è essere qui, pronti per scalare, pensando che soltanto un’ora e mezza fa ero chiusa in un ufficio distante 100 km. Scegliamo la prima “vittima” e via, si comincia.

Lentamente la giornata muore e le ore trascorrono al ritmo delle salite.
Alle 21 alziamo gli occhi al cielo, che da celeste si è fatto cobalto, con una nota indaco ad ovest, e le prime stelle iniziano a fare capolino; il buio sta prendendo il sopravvento ed è quasi ora di andare. C’è giusto il tempo per un’ultima via, salita alla luce delle lampade che i gestori del bar accendono per consentire ai climber di rimanere anche dopo il crepuscolo. Più a lungo non possiamo restare: un’ora di macchina ci attende per rientrare, con sosta in autogrill per uno spuntino veloce, e domani, ahimè, il lavoro mi chiama.
Ritirando l’attrezzatura veniamo assaliti da un nugolo di zanzare e siamo costretti a sbrigarci a fuggire verso l’auto lungo il vialetto illuminato dalle luci artificiali.
Voltandomi verso il bar l’impressione che mi riempie gli occhi è quella di un luogo incantato, una casetta di legno uscita da qualche favola di gnomi, fate e folletti, un’immagine da cartolina che spiace quasi lasciare. Ma sappiamo entrambi, io e il mio socio, che è soltanto un arrivederci alla prossima settimana, almeno fino alla fine dell’estate.

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