martedì 21 marzo 2017

Westworld




A me e a lui piace guardare alcune serie TV insieme, esclusivamente insieme; non tutte, sia chiaro, perché ognuno ha quelle che guarda indipendentemente dall’altro (di Black Sails lui ha visto solo la sigla ed Agents of Shield io so solo che esiste) e poi ci sono quelle che guardiamo entrambi ma ognuno a casa sua (Once Upon a Time ad esempio).
Ma altre fanno parte di quell’insieme di piccole cose che amiamo condividere, e l’ultima in ordine di tempo è stata Westworld, serie HBO del 2016.
Ne avevamo sentito parlare molto bene e inoltre il marchio HBO ci sembrava una garanzia di qualità; abbiamo deciso di darle una possibilità ed eccomi qui a recensirla, anche se è molto difficile scrivere di Westworld senza fare spoiler, ma ci proverò.
Innanzitutto qualche considerazione di carattere generale: la serie è breve, 10 episodi da 50 minuti, e io amo molto questa scelta stilistica; trovo che concentrare una stagione in pochi episodi permetta sia una maggiore cura dei dettagli, che poi dettagli non sono, come costumi, scenografia e fotografia, sia una maggiore pulizia nella scrittura del plot, che rimane focalizzato sulla trama senza divagazioni necessarie alla scrittura di episodi “riempitivi” o la suddivisione in due mid-seasons.
In secondo luogo HBO è effettivamente garanzia di qualità, basti pensare a titoli quali Game of Thrones, True Detective, True Blood, I Soprano (solo per dirne alcune …) e Westworld non si smentisce, e se pensiamo che l’ideatore è un certo Johnatan Nolan e tra i produttori esecutivi figura J.J. Abrams, il successo è quasi assicurato.
La trama è tratta dal film di Michael Crichton Il Mondo dei Robot e racconta di un parco a tema vecchio west popolato da androidi e creato per garantire ai ricchi visitatori un’esperienza western il più realistica e violenta possibile: nel parco ai visitatori è concesso tutto, anche uccidere i residenti (gli androidi). Il direttore creativo del parco, il dottor Robert Ford, aggiorna costantemente gli androidi con delle stringhe di comando chiamate “ricordanze”, che dovrebbero renderli sempre più simili agli umani, ma questi input tendono a prevalere sui comandi preimpostati e rendono instabili i robot, che iniziano a farsi domande, a prendere coscienza della loro situazione, fino a tentare la ribellione.


Mettiamo le cose in chiaro: Westworld è un casino!
Senza entrare nel dettaglio per non fare spoiler, gli showrunner hanno giocato con lo spettatore allo stesso modo con cui i creatori del parco giocano con gli androidi: gli autori hanno deliberatamente voluto confondere gli spettatori utilizzando il loop narrativo, le ricordanze, le voci nella mente, la timeline che si sviluppa su diversi piani esattamente come gli sceneggiatori delle narrazioni del parco, e Ford sopra di loro, fanno con i residenti. Lo spettatore quindi si trova a condividere gli stessi sentimenti di smarrimento dei robot davanti ai dettagli che vengono via via rivelati ma che non riesce immediatamente a capire, o neppure a percepire. Westworld è in questo senso uno dei più alti esempi di meta-scrittura, una sceneggiatura nella sceneggiatura e per questo è una serie che va capita e decifrata, indizio dopo indizio. Gli autori hanno disseminato gli episodi di cliffhanger e rimandi per accompagnare lo spettatore nel suo percorso attraverso il labirinto; il compito dello spettatore è quello di coglierli, se riesce, e farsi guidare.


In teoria Westworld avrebbe potuto essere niente di nuovo: un parco a tema popolato da robot (chi non ricorda Jurassic Park, per altro sempre di Crichton?) dove gli androidi che prendono coscienza e si ribellano … no, in effetti nulla di nuovo sotto il sole; ma è il modo in cui gli sceneggiatori hanno utilizzato una base narrativa già ampiamente vista per riflettere su temi molto più duri e profondi, a partire dallo sviluppo dell’autocoscienza, con la citazione di un saggio semisconosciuto dello psicologo Julian Janes intitolato “Il crollo della mente bicamerale e l’origine dell’autocoscienza” (non per nulla l’ultimo episodio si intitola The Bicameral Mind), rappresentato dalla ricerca del centro del labirinto. Un altro tema fortemente indagato è quello della dualità della natura umana e dell’etica: in un mondo dove tutto è concesso, dove gli ospiti si possono permettere di compiere i peggiori soprusi nei confronti degli androidi, proprio perché macchine, la scelta tra cappello nero e cappello bianco è più che una semplice scelta basata sul “tu da che parte stai?”; è una scelta che prevede il mantenimento della propria integrità morale, il rifiuto di uccidere una macchina solo per il gusto di farlo, il mantenimento di tutti quei principi che ci rendono uomini e non solo esseri umani.
Insomma Westworld è una serie difficile e bellissima allo stesso tempo, che vanta una scrittura stupefacente, ma anche il comparto tecnico ha svolto un lavoro straordinario: una fotografia curata all’inverosimile, che vive della dicotomia tra il luminoso, caldo, assolato esterno del parco e il buio, freddo e artificiale ambiente degli uffici della compagnia; la regia è quasi impeccabile, con riprese che portano lo spettatore all’interno della scena, campi lunghi estremamente emozionanti e un montaggio che, soprattutto negli episodi finali, contribuisce ad aumentare l’effetto di confusione che la serie vuole trasmettere.


Ma il grande merito della riuscita di Westworld va ad un cast eccezionale, partendo da una Evan Rachel Wood strepitosa nei panni dell’androide Dolores, umana e confusa come non mai, senza mai perdere la credibilità del suo essere una macchina; allo stesso modo Jeffrey Wright (Bernard) del quale non posso scrivere nulla senza fare enormi spoiler, ma la cui interpretazione è pazzesca.
E poi lasciatemi parlare dell’immenso Anthony Hopkins nei panni di Robert Ford,il creatore del parco, colui che tutto può controllare e tutto controlla; Hopkins l’ha reso inquietante e pericoloso nel suo sembrare assolutamente innocuo: ogni parola dalla su bocca esce minacciosa, per quanto Ford non abbia mai fatto male a nessuno, perlomeno non personalmente. Dovrebbe essere il vero “cattivo” della serie, ma forse infondo no, non è un cattivo, bensì il Dio del parco e come tale si comporta, senza remore e senza rimpianti, anche nell’incontro scontro con l’altro grande “villain” della serie, un Ed Harris magistrale nell’interpretazione dell’Uomo in nero.
Westworld non è solo questo, ma come dicevo è difficile scrivere di questa serie che si basa sui dettagli come poche altre senza spoilerare nulla, anche se forse qualche piccolo indizio qui e lì l'ho disseminato.

L’unica cosa che ancora posso dire è: guardatela! Io intanto attendo il 2018 per la seconda stagione.  

Nessun commento:

Posta un commento