A me e a lui piace guardare alcune serie TV insieme, esclusivamente insieme; non tutte, sia chiaro, perché ognuno ha quelle che guarda indipendentemente dall’altro (di Black Sails lui ha visto solo la sigla ed Agents of Shield io so solo che esiste) e poi ci sono quelle che guardiamo entrambi ma ognuno a casa sua (Once Upon a Time ad esempio).
Ma altre fanno parte di
quell’insieme di piccole cose che amiamo condividere, e l’ultima
in ordine di tempo è stata Westworld, serie HBO del 2016.
Ne avevamo sentito
parlare molto bene e inoltre il marchio HBO ci sembrava una garanzia
di qualità; abbiamo deciso di darle una possibilità ed eccomi qui
a recensirla, anche se è molto difficile scrivere di Westworld senza
fare spoiler, ma ci proverò.
Innanzitutto qualche
considerazione di carattere generale: la serie è breve, 10 episodi
da 50 minuti, e io amo molto questa scelta stilistica; trovo che
concentrare una stagione in pochi episodi permetta sia una maggiore
cura dei dettagli, che poi dettagli non sono, come costumi,
scenografia e fotografia, sia una maggiore pulizia nella scrittura
del plot, che rimane focalizzato sulla trama senza divagazioni
necessarie alla scrittura di episodi “riempitivi” o la
suddivisione in due mid-seasons.
In secondo luogo HBO è
effettivamente garanzia di qualità, basti pensare a titoli quali
Game of Thrones, True Detective, True Blood, I
Soprano (solo per dirne alcune …) e Westworld non si smentisce,
e se pensiamo che l’ideatore è un certo Johnatan Nolan e
tra i produttori esecutivi figura J.J. Abrams, il successo è
quasi assicurato.
La trama è tratta dal
film di Michael Crichton Il Mondo dei Robot e racconta
di un parco a tema vecchio west popolato da androidi e creato per
garantire ai ricchi visitatori un’esperienza western il più
realistica e violenta possibile: nel parco ai visitatori è concesso
tutto, anche uccidere i residenti (gli androidi). Il direttore
creativo del parco, il dottor Robert Ford, aggiorna costantemente gli
androidi con delle stringhe di comando chiamate “ricordanze”, che
dovrebbero renderli sempre più simili agli umani, ma questi input
tendono a prevalere sui comandi preimpostati e rendono instabili i
robot, che iniziano a farsi domande, a prendere coscienza della loro
situazione, fino a tentare la ribellione.
Mettiamo le cose in
chiaro: Westworld è un casino!
Senza entrare nel
dettaglio per non fare spoiler, gli showrunner hanno giocato con lo
spettatore allo stesso modo con cui i creatori del parco giocano con
gli androidi: gli autori hanno deliberatamente voluto confondere gli
spettatori utilizzando il loop narrativo, le ricordanze, le voci
nella mente, la timeline che si sviluppa su diversi piani esattamente
come gli sceneggiatori delle narrazioni del parco, e Ford sopra di
loro, fanno con i residenti. Lo spettatore quindi si trova a
condividere gli stessi sentimenti di smarrimento dei robot davanti ai
dettagli che vengono via via rivelati ma che non riesce
immediatamente a capire, o neppure a percepire. Westworld è in
questo senso uno dei più alti esempi di meta-scrittura, una
sceneggiatura nella sceneggiatura e per questo è una serie che va
capita e decifrata, indizio dopo indizio. Gli autori hanno
disseminato gli episodi di cliffhanger e rimandi per accompagnare lo
spettatore nel suo percorso attraverso il labirinto; il compito dello
spettatore è quello di coglierli, se riesce, e farsi guidare.
In
teoria Westworld avrebbe potuto essere niente di nuovo: un parco a
tema popolato da robot (chi non ricorda Jurassic Park, per
altro sempre di Crichton?) dove gli androidi che prendono coscienza e
si ribellano … no, in effetti nulla di nuovo sotto il sole; ma è
il modo in cui gli sceneggiatori hanno utilizzato una base narrativa
già ampiamente vista per riflettere su temi molto più duri e
profondi, a partire dallo sviluppo dell’autocoscienza, con la
citazione di un saggio semisconosciuto dello psicologo Julian
Janes intitolato “Il crollo della mente bicamerale e
l’origine dell’autocoscienza” (non per nulla l’ultimo
episodio si intitola The Bicameral Mind), rappresentato dalla ricerca
del centro del labirinto. Un altro tema fortemente indagato è quello
della dualità della natura umana e dell’etica: in un mondo dove
tutto è concesso, dove gli ospiti si possono permettere di compiere
i peggiori soprusi nei confronti degli androidi, proprio perché
macchine, la scelta tra cappello nero e cappello bianco è più che
una semplice scelta basata sul “tu da che parte stai?”; è una
scelta che prevede il mantenimento della propria integrità morale,
il rifiuto di uccidere una macchina solo per il gusto di farlo, il
mantenimento di tutti quei principi che ci rendono uomini e non solo
esseri umani.
Insomma Westworld è una
serie difficile e bellissima allo stesso tempo, che vanta una
scrittura stupefacente, ma anche il comparto tecnico ha svolto un
lavoro straordinario: una fotografia curata all’inverosimile, che
vive della dicotomia tra il luminoso, caldo, assolato esterno del
parco e il buio, freddo e artificiale ambiente degli uffici della
compagnia; la regia è quasi impeccabile, con riprese che portano lo
spettatore all’interno della scena, campi lunghi estremamente
emozionanti e un montaggio che, soprattutto negli episodi finali,
contribuisce ad aumentare l’effetto di confusione che la serie
vuole trasmettere.
Ma il grande merito della
riuscita di Westworld va ad un cast eccezionale, partendo da una Evan
Rachel Wood strepitosa nei panni dell’androide Dolores, umana e
confusa come non mai, senza mai perdere la credibilità del suo
essere una macchina; allo stesso modo Jeffrey Wright (Bernard)
del quale non posso scrivere nulla senza fare enormi spoiler, ma la
cui interpretazione è pazzesca.
E poi lasciatemi parlare
dell’immenso Anthony Hopkins nei panni di Robert Ford,il
creatore del parco, colui che tutto può controllare e tutto
controlla; Hopkins l’ha reso inquietante e pericoloso nel suo
sembrare assolutamente innocuo: ogni parola dalla su bocca esce
minacciosa, per quanto Ford non abbia mai fatto male a nessuno,
perlomeno non personalmente. Dovrebbe essere il vero “cattivo”
della serie, ma forse infondo no, non è un cattivo, bensì il Dio
del parco e come tale si comporta, senza remore e senza rimpianti,
anche nell’incontro scontro con l’altro grande “villain”
della serie, un Ed Harris magistrale nell’interpretazione
dell’Uomo in nero.
Westworld non è solo
questo, ma come dicevo è difficile scrivere di questa serie che si
basa sui dettagli come poche altre senza spoilerare nulla, anche se
forse qualche piccolo indizio qui e lì l'ho disseminato.
L’unica cosa che ancora
posso dire è: guardatela! Io intanto attendo il 2018 per la seconda
stagione.
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