Mi risulta sempre difficile trovare una dimensione
per i freddi mesi invernali, quando il tempo è impietoso e, se non piove/nevica,
è comunque troppo freddo per poter stare all’aria aperta.
La montagna, però, mi piace troppo per rinunciarvi
così, e poi sento il bisogno di nuovi stimoli, nuove avventure e nuove
conoscenze in questo inizio 2014.
Avevo già provato lo snowboard, con pessimi
risultati, un anno fa circa e mi ero divertita tanto da lasciarmi prendere da
una crisi di shopping compulsivo e comprare tavola e attacchi nel mese di
settembre.
Poi la tavola è rimasta parcheggiata nella mia
stanza fino al primo dicembre quando, complice una prima abbondante nevicata,
abbiamo inaugurato la stagione a Pila. Ovviamente non sono stata capace quasi
nemmeno di sollevarmi da terra, e mi sono quindi convinta ad iscrivermi ad un
corso organizzato dallo sci club Piantanida.
Ed eccomi, in questo mese di gennaio, correre
tutti i sabato mattina a Novara al punto di ritrovo dove carico tavola,
scarponi e me stessa su un pullman direzione Champorcher.
Lì, io e gli altri aspiranti tavolari, siamo
attesi da Sandro, il Maestro, per tre, e dico tre, intense ore di corso.
La strada verso la Val d’Aosta è un cumulo di
ricordi che caricano il viaggio di andata di un velo di nostalgia. Conosco a
memoria quasi ogni chilometro dell’autostrada fino a Quincinetto, autostrada
che ho percorso più e più volte nelle assolate sere della scorsa estate per
raggiungere Montestrutto, dove trascorrere qualche ora in compagnia di roccia e
zanzare.
Il mio sguardo individua il castello e subito si
posa sulle pareti della falesia, la cui continuità è interrotta dagli uliveti
che danno anche il nome ad un settore.
Il pullman prosegue inconsapevole del fiume dei
miei ricordi, e, usciti dall’autostrada ci dirigiamo verso Bard. Non appena il
Forte emerge dalla cortina di pioggia, sullo sfondo si staglia anche il
Paretone di Arnad, alle cui placche ho dovuto arrendermi in una sfortunatissima
giornata nell’autunno del 2012, sulla mia prima via multipitch con il corso del
CAI. “Bucce d’arancia” la via. Ogni volta che ci ripenso sono combattuta tra la
volontà di ignorarla e il desiderio di rivincita. Se ne riparlerà in primavera.
Anche con la nostra destinazione ho qualche
memoria sospesa: a Champorcher sono già stata, in una fredda domenica dello
scorso febbraio, quando per la seconda volte nella mia vita ho agganciato una
tavola ai miei piedi, e ho definitivamente deciso che dovevo imparare.
Ma il tempo per farsi subissare dai ricordi non
c’è, poiché in un attimo siamo al parcheggio alla base della funivia che ci
porterà alle piste. È ora di scendere e iniziare.
GIORNO 1: CURVE E SKILIFT
Nel piazzale ci riconosciamo al volo, noi
aspiranti tavolari, sparuto gruppetto in mezzo a una mandria vociante di
mini-sciatori e sciatori annessi. Eh già, perché il sabato è giornata di corsi
di sci per bambini, che sono ovviamente accompagnati dai genitori, i quali, a
dire il vero, sono più casinisti e antipatici dei bambini stessi. Noi
snowboarder ci identifichiamo subito perché siamo gli unici cinque che si
guardano attorno con espressione un po’ persa, tavola sotto al braccio e
scarponi comodi ai piedi, ci raduniamo in gruppetto e saliamo alle piste.

Ci dirigiamo, per iniziare, al campo scuola, dove
saliamo e scendiamo tra neve e tappeto un discreto numero di volte, abbastanza
per iniziare ad approcciare le curve.
Non siamo tutti allo stesso livello, ma non
importa, ognuno fa quel che riesce e tutti abbiamo molto da imparare, tutti
tranne Alessandro, nettamente più bravo di tutti gli altri, che si annoia e
deciderà di lasciare il corso.
A metà lezione siamo già stremati. Ci sediamo a
bordo della pista e mentre Sandro fuma una sigaretta qualcuno chiede l’ora:
14.45!! Allibiti ci rendiamo conto che dobbiamo affrontare ancora un’ora e
mezza.
Sandro sembra comunque abbastanza soddisfatto e,
serafico come da contratto, decide che è giunto il momento di approcciare lo
skilift. Al pensiero l’ansia mi assale: in molti hanno fatto terrorismo
psicologico riguardo il prendere lo skilift con la tavola. In realtà lo prendo
tre volte e mi sembra più semplice di quanto mi avessero prospettato. Mi
ricrederò alla seconda lezione.
Risaliamo con lo skilift e scendiamo lungo la baby
un po’ di volte, continuando ad esercitarci a curvare. A volte ci si riesce,
altre no; alcune volte riesco ad impostare bene la curva da subito, altre non
riesco ad impostarla affatto … pazienza, ci sarà tempo per migliorare.
Terminate le tre ore siamo tutti stanchissimi e
anche un po’ affamati.
Mi dirigo verso il bar, dove vorrei un cappuccino
caldo, ma scopro che stanno chiudendo e mi devo accontentare di addentare una
brioche. Mentre scendiamo verso il paese con la mente sono già sotto una bella
doccia calda e poi sotto il piumone, non prima, però, di aver ordinato una
bella pizza!
GIORNO
2: LET IT SNOW, LETI IT SNOW, LET IT SNOW!
Si parte da Novara sotto una pioggia scrosciante. Volgendo
lo sguardo verso le montagne, sembra che non si prospetta una giornata migliore
nemmeno lassù. Ma partiamo lo stesso.
Mentre c’è chi dorme, chi chiacchiera, chi gioca
ai videogiochi, o chi semplicemente guarda fuori dal finestrino, il viaggio
scorre tranquillo e il pullman arriva al parcheggio della funivia senza troppi
problemi, pur sotto una insistente pioggia che diventa neve negli ultimi
chilometri di salita. So già che termineremo la giornata bagnati fino alle
ossa, e purtroppo non mi sbaglierò.

Scendo dal pullman con lo stomaco in subbuglio:
come prevedevo ho patito gli ultimi chilometri di curve e non vedo l’ora di
addentare un buon panino caldo, seduta al tepore del camino dello “Spirito di
Vino”. Così è, e dopo due parole con i soci e una obbligatoria tappa al bagno,
è già ora di cercare Sandro.
Per scaldarci iniziamo con qualche discesa sulla
baby, su e giù dallo skilift. Non avendo avuto particolari problemi la volta
scorsa, lo affronto spavalda, con l’attacco posteriore sganciato. Avrei dovuto
fare meno la figa e volare basso: a metà salita la tavola prende un sobbalzo,
si gira e lo skilift mi disarciona. FUCK!
Mestamente esco verso la pista e scendo. Ci
riprovo, ma l’esito è lo stesso, anzi peggio perché la tavola ruota più
vigorosamente e mi gira anche il ginocchio. Per limitare i danni a un po’ di
male devo lasciarmi cadere.
Ci riprovo una terza volta e non va meglio. Questa
volta decido di risalire a piedi fino in cima e fare la discesa completa.
Tornata allo skilift tengo entrambi gli attacchi
agganciati; sarà anche meno figo, ma almeno non cado.
Dopo la quinta ripetizione della baby, Sandro
annuncia che è giunto il momento di alzare l’asticella: seggiovia e pista blu.
Sono contenta di scendere finalmente lungo una discesa un po’ più impegnativa
ma soprattutto un po’ più lunga: iniziavo ad anniarmi sulla baby. Il problema,
però, è la seggiovia, che ho già preso alcune volte, in altre occasioni, ma
dalla quale non riesco a scendere. O meglio, scendere, scendo … ma di faccia!!
E anche questa volta non mi smentisco. Sulla seggiovia fa, oltretutto, un
freddo immondo e non riesco a tenere la maschera perché è troppo scura e non
vedo nulla, così arrivo in cima con il viso quasi paralizzato dal freddo.
Andiamo bene!
La discesa però è goduriosa! Poiché la neve
continua a scendere senza sosta, sulla pista, anche dove dovrebbe essere
battuta, c’è un discreto strato di neve fresca. E io adoro la neve fresca:
posso cadere senza timore di farmi male!
Alla prima discesa seguiremo la pista
pedissequamente o almeno ci proveremo, visto che risulta quasi impossibile
capire dove dovrebbe essere battuta e dove no; la seconda e la terza volta la
taglieremo lateralmente, per passare un po’ di più nella fresca e cercare di curvare
anche nei punti un po’ più ripidi, considerando che non possiamo prendere
troppa velocità.
Arriviamo alla “Scuola Sci” che sono ormai le
quattro passate, ma invece di lasciarci all’ovetto, Sandro decide di farci
scendere lungo il rientro.
Da subito siamo tutti entusiasti, poi, raggiunto
l’inizio della pista, vediamo i cartelli che indicano la direzione: sono di
colore nero, quindi pista nera. Rimaniamo perplessi: nessuno di noi si sente in
grado di affrontarla. Ma Sandro obietta che “sui talloni” possiamo scendere
ovunque.
Un po’ titubanti ci lanciamo verso i primi metri,
che sono in realtà molto piatti e per questo ci rincuoriamo un pò. Va bene,
dai, affrontiamo questo rientro. Cosa sarà mai?! Una roncolata sui denti, ecco
cos’è!! Dopo questo primo pezzo piatto, che probabilmente è solo il “raccordo”
tra la baby e il rientro vero e proprio, il percorso si fa difficile, tortuoso,
in alcuni punti molto ripido e stretto. A metà siamo tutti stremati, con i
muscoli doloranti e non più in grado di governare con precisione le rispettive
tavole. Scendiamo tagliandoci continuamente la strada, inciampando l’uno
sull’altro, cadendo e ruzzolando in continuazione. Io sono talmente tanto piena
di neve da sembrare un dalmata al contrario!
Quando avvistiamo, finalmente, la fine della pista
e il parcheggio, i tre pullman sembrano quasi un miraggio e un miracolo: siamo
in fondo e siamo interi!
Sganciamo le tavole e ci precipitiamo al pullman 3
esausti.
Personalmente salgo la scaletta praticamente sui
gomiti e mi addormento nel giro di pochi minuti, nonostante sia fradicia,
intirizzita e dolorante.
Mi accorgo solo a sprazzi che il ritorno diventa
un viaggio della speranza, a causa della neve caduta, delle strade sporche e
delle catene, che il pullman deve mettere, ma che non vogliono rimanere
agganciate.
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