giovedì 6 aprile 2017

Tredici - Thirteen Reasons Why


 Nei giorni scorsi si è fatto un gran parlare di Tredici, novità Netflix tratta dal romanzo di Jay Asher del 2007, che il canale streaming ha rilasciato il 31 marzo, e tutte queste chiacchiere mi hanno incuriosita. Ho Netflix e avevo un paio d’ore libere venerdì sera, quindi ho provato a dare una chance almeno al primo episodio dei, manco a dirlo, tredici, pensando di abbandonare senza rimorsi dopo la prima mezzora.
Bene, ho finito la serie in tre serate.
La definivano teen drama, paragonandola a Pretty Little Liars o Riverdale, mi aspettavo una serie per adolescenti, infarcita di stereotipi, falsi moralismi e buoni sentimenti.
Tutt'altro.
Tredici è un bel pugno nello stomaco, non solo per i teenager ai quali sembra rivolgersi, ma anche, e soprattutto, per gli adulti che la possono e la devono guardare con occhi diversi.
Hannah Baker si è suicidata; ma prima di farlo ha lasciato 13 cassette destinate a 13 persone che rappresentano le altrettante ragioni del suo suicidio, da cui il titolo originale Thirteen Reasons Why.


La serie tratta di argomenti delicati e scottanti quali il bullismo, la solitudine, la violenza (anche sessuale) e, appunto, il suicidio senza romanzarli, evitando quel romanticismo dark tanto caro al genere teen e young adult, ma affidandosi ad un crudo realismo quasi chirurgico che, soprattutto negli ultimi quattro episodi, fa male: alla fine lo spettatore è atterrito, sconvolto, arrabbiato, esattamente come lo sono i protagonisti.
La trama è un’immersione nel mondo di Hannah e nella sua crescente disperazione, una caduta nella spirale depressiva che la porterà al gesto estremo. E se all'inizio le motivazioni appaiono un tantino futili e immature, con il proseguire degli episodi si vede come ogni singolo avvenimento, partendo dalla reputazione danneggiata per colpa di una stupida fotografia, non sia stato altro che uno scalino che ha portato Hannah verso il baratro.
Il tutto è raccontato attraverso le parole della ragazza incise sui nastri, e dal punto di vista di Clay Jensen, vero e proprio alter ego dello spettatore, che riceve le cassette qualche settimana dopo la morte di Hannah, ed inizia ad ascoltarle, tormentandosi nell'attesa di capire cosa sia accaduto ad Hannah e in che modo lui stesso sia coinvolto.


Tredici fa male perché non rappresenta le vite di adolescenti ricchi e viziati, modelli irraggiungibili per la maggior parte degli spettatori, ma storie comuni, vicende che possono accadere in qualunque liceo americano, o europeo. Fa male perché può accadere a noi, ai nostri amici, ai nostri figli.
Fa male perché rappresenta una normalità che normale non deve essere, perché fa parte di una società che non è più sana, dove tutto viene trattato con leggerezza e archiviato con un’alzata di spalle anche da parte degli adulti, che invece dovrebbero vigilare, capire e intervenire prima che sia troppo tardi.
Il finale, però, lascia ancora un’immagine di speranza, in quell'auto che corre via, con i quattro ragazzi a bordo; la speranza che qualcuno può essere ancora salvato, che si può essere migliori di così.


Voto: 10

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