Nei giorni scorsi si è fatto un gran parlare di Tredici, novità Netflix tratta dal romanzo di Jay Asher del 2007, che il canale streaming ha rilasciato il 31 marzo, e tutte queste chiacchiere mi hanno incuriosita. Ho Netflix e avevo un paio d’ore libere venerdì sera, quindi ho provato a dare una chance almeno al primo episodio dei, manco a dirlo, tredici, pensando di abbandonare senza rimorsi dopo la prima mezzora.
Bene, ho finito la serie in tre serate.
La definivano teen drama,
paragonandola a Pretty Little Liars o Riverdale, mi
aspettavo una serie per adolescenti, infarcita di stereotipi, falsi
moralismi e buoni sentimenti.
Tutt'altro.
Tredici è un bel pugno nello stomaco,
non solo per i teenager ai quali sembra rivolgersi, ma anche, e
soprattutto, per gli adulti che la possono e la devono guardare con
occhi diversi.
Hannah Baker si è suicidata; ma prima
di farlo ha lasciato 13 cassette destinate a 13 persone che
rappresentano le altrettante ragioni del suo suicidio, da cui il
titolo originale Thirteen Reasons Why.
La serie tratta di argomenti delicati e
scottanti quali il bullismo, la solitudine, la violenza (anche
sessuale) e, appunto, il suicidio senza romanzarli, evitando quel
romanticismo dark tanto caro al genere teen e young adult,
ma affidandosi ad un crudo realismo quasi chirurgico che, soprattutto negli ultimi
quattro episodi, fa male: alla fine lo spettatore
è atterrito, sconvolto, arrabbiato, esattamente come lo sono i
protagonisti.
La trama è un’immersione nel mondo
di Hannah e nella sua crescente disperazione, una caduta nella
spirale depressiva che la porterà al gesto estremo. E se all'inizio
le motivazioni appaiono un tantino futili e immature, con il
proseguire degli episodi si vede come ogni singolo avvenimento,
partendo dalla reputazione danneggiata per colpa di una stupida
fotografia, non sia stato altro che uno scalino che ha portato Hannah
verso il baratro.
Il tutto è raccontato attraverso le
parole della ragazza incise sui nastri, e dal punto di vista di Clay
Jensen, vero e proprio alter ego dello spettatore, che riceve le
cassette qualche settimana dopo la morte di Hannah, ed inizia ad
ascoltarle, tormentandosi nell'attesa di capire cosa sia accaduto
ad Hannah e in che modo lui stesso sia coinvolto.
Tredici fa male perché non rappresenta
le vite di adolescenti ricchi e viziati, modelli irraggiungibili per
la maggior parte degli spettatori, ma storie comuni, vicende che
possono accadere in qualunque liceo americano, o europeo. Fa male
perché può accadere a noi, ai nostri amici, ai nostri figli.
Fa male perché rappresenta una
normalità che normale non deve essere, perché fa parte di una
società che non è più sana, dove tutto viene trattato con
leggerezza e archiviato con un’alzata di spalle anche da parte
degli adulti, che invece dovrebbero vigilare, capire e intervenire prima che sia troppo tardi.
Il finale, però, lascia ancora
un’immagine di speranza, in quell'auto che corre via, con i
quattro ragazzi a bordo; la speranza che qualcuno può essere ancora salvato, che
si può essere migliori di così.
Voto: 10
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