martedì 7 maggio 2013

Arco, episode 1


Arco (TN).
Un luogo il cui nome viene pronunciato con rispetto e reverenza da tutti i climber che vi si sono recati almeno una volta, la cui fama sfocia quasi nel mito per chi ancora non c’è stato. Un luogo in cui, ovunque si volga lo sguardo, gli occhi intercettano una parete da scalare, una linea da seguire, una falesia da raggiungere, anche se solo con l’immaginazione.
È da quando ho seguito, purtroppo in televisione, i mondiali di arrampicata del 2011 che desidero scalare lì, su quelle immense pareti di calcare affacciate sulla punta più alta del lago di Garda, dove il Sarca getta le sue acque smeraldine in quelle azzurre del lago, circondate da ulivi, limoni e tanto, tanto verde.
Quest’anno il ponte del 25 aprile è molto goloso: quattro giorni buoni per scalare; un’occasione così non possiamo certo farcela scappare e con un mese di anticipo Matteo inizia ad organizzare un weekend lungo, che assume quasi il sapore di un pellegrinaggio in Terra Santa.
Nel corso dei giorni il gruppo, dapprima abbastanza numeroso, inizia purtroppo a perdere elementi, e così, a ridosso della partenza, rimaniamo in quattro: io, Matteo, Fabio e Luca; come si dice pochi ma buoni!

Giovedì 25 aprile
Ritrovo ore 6.30 al punto blu a Galliate. Luca, in trasferta lavorativa, ci raggiungerà, spera, in giornata, mentre noi tre rimasti carichiamo zaini e bagagli sulla mia piccola Ypsilon e ci mettiamo in marcia diretti verso la Valle del Sarca. Il viaggio scorre tranquillo: superiamo senza problemi una Milano ancora addormentata e via via snoccioliamo uno dopo l’altro i paesi adagiati lungo la A4 semi deserta.
Mentre scorrono i chilometri si discute un po’ di tutto e un po’ di niente: di auto da cambiare, di auto da tenere ancora per un po’, della voglia di trasferirsi all’estero, di falesie e di canzoni, di una giornata che si prospetta calda e assolata, ricca di emozioni nuove e ancora tutte da scoprire.
Prima delle 9.00 ci fermiamo ad Affi per la seconda (almeno per me) colazione, e poi via veloci lungo la Modena-Brennero, su su verso quelle montagne tanto attese.
Durante il viaggio Fabio sfoglia la guida nuovissima, acquistata apposta per l’occasione, e decidiamo la destinazione: il Belvedere di Nago.
Ne ho letto un po’ su alcuni forum, so che ne parlano bene, ma dicono anche che è una falesia piuttosto gettonata e per questo unta. Ma poi, realmente, cosa vorrà mai dire unta? Ho quasi paura di scoprirlo!
Siamo lì attorno alle 10, e appena parcheggiata l’auto capisco perché si chiama Belvedere: da lì si gode una spettacolare vista del Garda solcato dalle vele dei windsurf e delle barche, con l’abitato di Torbole che abbraccia la foce del Sarca, immerso in uno spazio di campi e prati verdissimi, sullo sfondo di imponenti muri di roccia calcarea. La giornata quasi estiva ci regala anche un cielo azzurro che completa uno spettacolo da cartolina; proprio per questo, però, la falesia è già piuttosto affollata, soprattutto di climber di lingua tedesca; riusciamo comunque a conquistarci subito un paio di vie libere.
Il calcare sembra ottimo e compatto, ma già sulla prima via capisco cos’è l’unto: gli innumerevoli passaggi dei climber hanno levigato la roccia in alcuni punti “obbligati”, rendendo quasi impossibile far aderenza con le scarpette. Anche con le mie nuove, mitiche Scarpa faccio un po’ di fatica.
Le gradazioni non mi sembrano, tuttavia, così severe come mi avevano annunciato forse per spaventarmi. Un paio di quarti li scalo da prima senza troppi problemi, due placchette divertenti e ben appigliate.
Ci spostiamo allora su due quinti, e qui, a dire la verità, iniziano i problemi. Fabio, dopo aver montato le vie, consiglia a me e a Teo di provarli da 2, perché “non sono banali”. Tracciati uno accanto all’altro, hanno entrambi una partenza leggermente strapiombante e gli appigli per la maggiore leggermente svasi. Poi proseguono su qualche metro di placca liscissima, con tacchette da cardiopalma da stringere in punta di dita e piedi spalmati sul nulla. Inutile sottolineare come io, placchista indomita che non sale uno strapiombo nemmeno se parancata, mi sia appesa innumerevoli volte nei metri iniziali, con le braccia già ghisate al primo rinvio, passeggiando poi con grande godimento la parte placcosa finale.

La giornata trascorre veloce e caldissima, una via dopo l’altra, splende un sole da incorniciare e si scala praticamente in costume.
Verso mezzogiorno la maggior parte dei climber crucchi abbandona la falesia, liberando finalmente le vie più divertenti nella parte bassa della falesia. Facciamo conoscenza con un gruppetto di ragazzi cuneesi, con i quali ci alterniamo sulle vie nel corso del pomeriggio, riuscendo a salire tutte quelle che più ci aggradano senza mai dover sgomitare. Così, quasi senza accorgermene, supero il mio record di vie salite in una sola giornata: non ho mai oltrepassato le 8 vie, mentre oggi ne faccio addirittura 10!
Un quinto che sembra facile facile mette a dura prova la mia, ormai cronica, coniglite: passetto duro al penultimo spit, piccola frattura per le mani con appoggio di fiducia per i piedi. Non mi fido, figuriamoci, e mi appendo; ci riprovo e mi riappendo; ci provo ancora, stesso risultato. Mi faccio calare; la chiuderò in un giro da seconda, con l’amaro in bocca.
Proviamo altri due quinti: uno facile facile che segue una bella frattura con qualche passo in diedro, un altro poco impegnativo all’inizio ma con un finale folle: quattro metri circa di placca quasi verticale sulla quale gli appigli sono disegnati e gli appoggi per i piedi modellati con lo strutto. Carinissima e divertente … ma forse solo perché la salgo da 2. Non importa, per oggi lascio vincere il coniglio che è in me e la chiudo pulita così.
Ci spostiamo su un paio di 5b. Quelli anche Matteo decide di salirli da 2, perché si sente giustamente stanco, soprattutto psicologicamente. Anche questi sono placcosi e svasi. Per me una meraviglia, per Teo un po’ di meno, ma l’avevamo già capito che io e lui siamo climber in opposizione di fase: dove io passeggio, lui impreca; dove lui non ha problemi, io non salgo.
Ed è proprio per questo che Teo decide di provare un 5c che ha il passo chiave sotto un tetto, sul quale riesce grandiosamente a passare dopo averci meditato un po’, mentre io scelgo di non provarla nemmeno e me ne rimango seduta a fare il tifo.
La stanchezza e la fame cominciano a farsi sentire quando ci accorgiamo che si sono fatte quasi le 20 ed è ormai ora di raggiungere l’agriturismo dove pernotteremo, anche se il clima tiepido e la luce ancora forte invoglierebbero a rimanere per scalare ancora un po’.
Dopo la cena in pizzeria, durante la quale ci divoriamo una pizza e mezza a testa e un paio di birre stra-meritate, andiamo a dormire in compagnia di una splendida luna piena che, facendo capolino dalla finestra, illumina la stanza con una morbida luce bianca e ci incoraggia a sperare anche per l’indomani, anche se le previsioni meteo per il 26 non sono mai state particolarmente incoraggianti nel corso degli ultimi giorni.


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